È successo ancora una volta che mi si dicesse: “Eh, ma tu ci riesci perché sei una donna forte!”

Tutte le volte che vengo descritta così ho un sobbalzo al cuore.

Io e le mie collezioni di insicurezze, io e miei dubbi su tutto, io e le mie lacune, io e le mie innumerevoli fragilità, io: spesso la persona sbagliata al momento sbagliato come nel lavoro, nell’amore.

Io e la mia fedele ansia, compagna di vita, di sventura, mia fanghiglia nella quale annaspare e rallentare.

Da tutto questo come si fa a pensare che io sia una donna forte? Ci ho pensato, riflettuto per capire dove nasca questo equivoco, che può scaturire anche dalla cosa più banale: vedermi prendere l’auto e raggiungere Catania.

Sarà forse il mio modo di affrontare le sfide piccole e grandi che la vita mi propone o come mi diletto in una discussione, magari al lavoro?

Probabilmente il mio coraggio (ad affrontare a volte dei giganti) viene scambiato per forza, ma se fossi un uomo sarebbe lo stesso? Penso proprio di no, non sarei etichettato come forte, sarei “normale“.

Quello che è normale per un uomo può mai essere ancora speciale per una donna?

Perché se ascolta se stessa, segue le sue idee, giuste o sbagliate che siano, deve essere scambiata per un’eroina?

Sono stata educata anche da mia nonna, nata nel 1912, il dovere stare “al mio posto” era la regola, sembrerebbe in antitesi ancora con quella che sono oggi…

La nonna non era femminista, è cresciuta non potendo votare e quando è arrivato il suffragio anche per le donne ha continuato a non farlo, si è sposata ma ha promesso che nella sua prossima vita non lo farà. Questa sua frase che inizialmente mi ha fatto sorridere, in un secondo ha spalancato tutta la pressione della società di una Palermo degli anni ’30.

Il suo insegnamento di “restare al mio posto” l’ho comunque fatto mio, ma sta a me scegliere quale sia quello da occupare.