Avevo otto anni quando Titti è arrivata a casa, era un cucciolo piccolo piccolo di siamese.

Ricordo ancora il momento preciso in cui ci fu “passata” all’uscita di scuola, sulle scale metalliche delle elementari Enea Rossi, è stato un regalo, forse il migliore della mia vita,  ricevuto da un’alunna di mia madre, maestra nello stesso plesso.

All’inizio l’osservavo, ero un po’ intimorita era il primo mammifero a quattro zampe con cui mi relazionavo, non sapevo che quello sarebbe stato uno dei grandi amori della mia vita.

Tittolina c’era sempre. Piangevi? Arrivava lei a consolarti, avevi la febbre? Lei era con te dall’inizio alla fine, sulla coperta, messa a “pollo”, espressione che tra gattofili si usa spesso, versioni di greco e latino? Lei in braccio o sulla scrivania, spesso il primo approccio era sul vocabolario stesso, così fino all’università.

Poi purtroppo la vita di questi esserini che diventano i tuoi bambini che non crescono mai, corre veloce, velocissima e te la vedi scorrere davanti.

Per lei c’è stata quella che in Italia per gli essere umani è vietata, andare via con dolcezza, dignità per porre fine a dolori che non ti fanno più andare avanti.

In questo caso però sono stata io a dovere prendere la decisione che spesso il veterinario mi aveva paventato e che mi aveva fatto orrore, ma lui stesso mi diceva dopo la mia reazione: “Lo capirai da sola quando è il momento”.

Cosi è stato.